LEGàMI

 

 

Non vorrei che ti facessi un'idea sbagliata di me. Il fetish non mi interessa. Dovevo imparare a fare i nodi e il corso di bondage costava meno di quello di vela. Ci sono giorni in cui il tuo odore mi scivola addosso come una carezza. Mi hanno regalato anche un kit di corde in canapa. La prima lezione è stata sulle nozioni di sicurezza e i nodi base. Ci sono giorni in cui vorrei riuscire a trattenerti dentro di me. Poi siamo passati ai nodi base per polsi e caviglie. Una volta capita la tecnica ho imparato a legare anche torso, braccia e gambe. Ci sono giorni in cui mi illudo di non averti mai incontrata. Il body harness, la legatura completa è astrusa, ma meno delle semi-sospensioni e delle mummificazioni. Ci sono giorni in cui ti canto il mio tormento e tu mi consoli. Sei lezioni in tutto. Sono soddisfatto, ce l'ho fatta, di solito non sono costante negli impegni. Ci sono giorni in cui ti accosti a me con una delicatezza che blocca il fiato. Non voglio farti male, ma non posso permetterti di andare via. Ti tratterò bene, mi prenderò cura di te. Ci sono giorni in cui nel mio cuore stringo tutta l' umanità che desidero, perché accoccolata tra i miei sensi ci sei tu. Se fai la brava non ti immobilizzo al letto, ma devo bloccarti in qualche modo, lo capisci? Userò un restrittore. Ma stai ferma, per favore. Vedi, non ho preso quello con la barra posteriore in metallo, è in cuoio e pelle, anche il collare e le polsiere; metti bene le mani dietro la schiena, così. Stai calma. Con le mie lacrime potrei pulire tutto il dolore del mondo, in certi giorni. Voglio regalarti il cimitero che ho dentro. Farti entrare nella mia casa blue dalle pareti venate di plasma e farti scivolare sul tiepido parquet screziato. Ti farò camminare nella mia anima. E' un privilegio unico. Accenderemo una torcia alla volta per rischiarare il cammino. Sarà come percorrere una galleria, ci fermeremo in ogni stanza che valga la pena di essere raccontata.

 

Uomo Onda

 

 

La mia stanza da letto ha una parete a forma d'onda e mi addormento e sogno solo da quel lato. Vedo chi ero e come sono rinata: un granello di sale che si addormenta su uno spuntone di roccia in riva al mare e si risveglia faro. Il ritmo del rifrangersi dei flutti è un dolce canto d'amore. Una voce profonda e calda che mi investe di vigore e di emozioni. La luce che emetto è sempre più intensa. Con armonica pazienza cerco di scorgere chi mi porta tanta gioia. Chi è così ricco da potersi donare con rinnovata e continua passione. Io - Donna Faro - cerco di ergermi tenace nella mia seducente stabilità. Uomo Onda mi avvolge in abbracci impetuosi o soavi, senza sosta. Ognuno per sé ricordava di essere solo. Non più ora che mi sento così casa. Non più ora, che Uomo Onda è a casa.

 

 

Il principe cazzuto azzurro

 


Dentro di me una moderata cagnara. Mentre tutti brindano festosi al nuovo anno, io vorrei pungermi con un fuso e addormentarmi per cent'anni. Non è previsto che arrivi un principe cazzuto azzurro a svegliarmi. Non ne posso più di principi e pozioni, streghe e fate, castelli e carrozze. L'ultimo mi è bastato. L'ultimo castello, intendo. Troppo personale, un traffico gestire tutto, per non parlare dei costi di riscaldamento e di giardiniere. L'unico che pagavo volentieri era lo stalliere. Diciamo che da lui mi è venuta la passione per l'opera del maniscalco. Adesso sono un'esperta di zoccoli. Ho imparato a cambiarli. Per principio non li fisso mai bene, così capita che durante una passeggiata nei boschi ogni tanto ne perda uno. Pazienza. Lo zoccolo ha di bello che si può cambiare quando si vuole. Lo zoccolo però è come le scarpe. Non ce n'è una uguale all'altra e quando capita di trovare quella che ti calza perfettamente, che quando la infili ti senti tutta a tuo agio, ecco, quando perdi quello zoccolo lì allora sono guai. E sono altrettanti guai quando lo zoccolo è messo male ma non si vuole più staccare. Già. Una montagna di guai. Si barcolla, si traballa, si vacilla. E lo zoccolo è sempre lì, impigliato. Impagliato. Una volta ho fatto impagliare un principe. Cazzuto azzurro. L'ho trovato con uno dei miei zoccoli. Ho dovuto eliminarlo. L'ho fatto imbalsamare così com'era : sorretto da un ombrello, con indosso la sola giacca. Ogni giorno gli stillo negli occhi un po' di collirio. Voglio vederlo piangere per l'eternità. E che nessuno più cerchi di mettere il naso nei miei passatempi.

 

 

 

 

Una storia di tutti i giorni

 

 

Questa è una piccola storia, ed è una storia di tutti i giorni. Questa è la storia della piccola Gaia, una bambina felice e spensierata, che cresceva nella periferia di una grande città. Era sana, libera e non aveva paura di niente, neanche del buio. Avete mai vissuto nella periferia di una città industriale ? Si sta bene, ci si diverte, si hanno tanti amici e in media una volta l'anno si grida al maniaco. Mettete pure a riposo la vostra fantasia, parlo di quello classico: giovane, fisico asciutto, impermeabile slacciato e mani in tasca.
Gaia giocava con le bambole quando il suo corpo le fece uno scherzetto. Sembrava fatto di umida creta: crebbe, si ampliò, si allungò, spuntarono scomode protuberanze. Scomode per correre, ad esempio. Lei non se ne sarebbe neanche accorta, se nuovi occhi non avessero cominciato a guardarla insistenti proprio dove l'artista aveva plasmato giovani dune. La natura fa il suo corso, l'umanità ne subisce il fascino, a volte i capricci, ma alla fine ci si adatta sempre. E' una questione di sopravvivenza. Così anche Gaia cominciò ad apprezzare il cambiamento, facilitata dal fatto che quasi tutte le sue amiche l'avevano raggiunta. Era maggio e, come spesso accadeva in primavera, per qualche giorno si sparse la voce che girasse per il quartiere un depravato. La cosa più che disgustosa era intrigante, così pensavano un po' tutti. In effetti la voce girava, ma non si riusciva mai a parlare con chi l'avesse visto di persona, e in più dai passaparola che si coglievano, sembrava che il tipo fosse un esibizionista e null'altro. Diciamo la verità, le ragazzine non lo temevano, in gruppo si sentivano forti, e dunque avrebbero voluto incontrarlo: per avere qualcosa di terribile da raccontare, per sentirsi al centro dell'attenzione, per vedere la mercanzia. Gaia non era ancora arrivata ad avere delle curiosità personali, non le interessavano molto i ragazzini, non si era posta domande sull'amore, né tanto meno sul sesso. Ognuno ha i proprio tempi, e lei per ora era lo zainetto della compagnia, andava a traino, per non sentirsi esclusa. Così un giorno, alla fermata dell'autobus che prendeva tutti i martedì per andare in piscina, le sembrò naturale abbassarsi all'altezza del finestrino dell'auto di un signore che le chiedeva indicazioni per l'aeroporto. Certo le sembrò strano quello che vide, sicuramente non pericoloso, piuttosto bizzarro. Il signore teneva in mano un grosso wurstel. A Gaia veniva un po' da ridere e si chiese perché mai una persona dovesse andare in giro accarezzando un wurstel appoggiato in mezzo alle gambe. Lei gli diede le indicazioni per l'aeroporto, lui si offrì di darle un passaggio, visto che non era di fretta. Gaia sentì un brivido gelido percorrerla. Colpa di quel modo di respirare, del fiato che faceva uscire dalla bocca del signore mezza parola per volta. Arrivò l'autobus, Gaia ci volò sopra. Si dispiacque di essere scappata così, senza salutare. Non era sicura di aver incontrato il maniaco e, per non sembrare ridicola, non raccontò a nessuno quello che era successo.

 

 

 

La bella signora


- Certo che me lo ricordo. - disse James
Il poveretto erano ben 36 anni che conviveva con questo nome, che gli stava appiccicato addosso come un chewing-gum nei capelli. Lui non era bello, neanche piacente a dir la verità, intelligente si, ma non brillante, era goffo, perennemente a disagio e aveva la caratteristica di mettere a disagio tutti quelli che, per forza, lo dovevano frequentare.
- Lo ricordo bene, quel signore - riprese - stava seduto su quella panchina con lo sguardo smarrito. Diceva che stava aspettando qualcuno, ma non ricordava più chi. Piangeva. Così mi sono messo a parlare un po' con lui. Era molto colto, parlava di brevetti chimici, invenzioni fatte da lui, della sua famiglia, di una casa sul lago, e di suo padre. Non seguiva un ordine, parlava, parlava. Ogni tanto smetteva e lo sguardo si perdeva fisso su niente. Facevano rumore i suoi pensieri ed erano veloci, lo si capiva dal dolore che si provava a stargli accanto. Ma non desideravo andare via, ero come incollato a quella panchina. Era pomeriggio, le quattro forse. Ci passarono davanti tante persone, alcune le ricordo bene. Una ragazza con un bambino per mano e una gran pancia, sarà stata di almeno otto mesi, ma non è che io me ne intenda. Incrociando una zingara, fece un gran urlo. Gridava - ha sei dita, ha sei dita! Adesso mi nascerà con sei dita! - Da quello che ho potuto capire la zingara aveva sei dita in una mano, e la ragazza sosteneva che era rimasta così impressionata che la sua creatura sicuramente sarebbe nata con questa malformazione. Poi mi ricordo di un uomo. Avrà avuto quaranta, quarantacinque anni. Ci è passato davanti quasi correndo, ma io l'avevo già notato mentre si dirigeva verso di noi e la sua andatura era decisamente lenta. Anche lui aveva il volto rigato dalle lacrime. James parlava ad una signora elegante, una gran bella signora. Tacchi alti, tailleur classico di colore chiaro, e capelli lunghi, scalati, biondi. Quello che lo colpì maggiormente però fu il profumo: dolce, forte, nauseabondo. Pensò - peccato, non uscirei mai con una così.

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- Quel ragazzo ? Poteva avere la mia età, forse un po' più giovane. Mi chiamava Arturo, ma non è il mio nome. A dire il vero non ci siamo neanche presentati.
Il dottor Anelli, geologo in una grande industria petrolifera, era persona integra, dai modi cortesi ed un‘innata eleganza. Parlava in maniera chiara, con un tono di voce caldo e profondo. Era un piacere stare in sua compagnia, se ne accorse anche lei, mentre continuava a fargli domande.
- Era una mattina molto fredda, stavo correndo al lavoro, a piedi, perché con la gelata della notte la mia macchina non ne aveva voluto sapere di mettersi in moto. Così andavo di fretta, a parte brevi tratti in cui dovevo rallentare per asciugare fastidiose lacrime causate dal gelo pungente. Ripensandoci, più che venirmi incontro, ricordo proprio che mi corse addosso, come se dovesse dirmi qualcosa di urgente. In effetti il suo modo di esprimersi era concitato, faceva strani gesti con le mani e con la testa, indicava una panchina, vuota. Per un po' stetti a sentirlo, poi mi spazientii perché avevo fretta, perché non capivo che cosa volesse da me. E poi non si vedeva niente...-
Il dottor Anelli smise di parlare, e con la mano si toccò le tempie: - Dio che mal di testa che fa venire questo profumo - pensò - peccato. E la considerò un'occasione mancata.
La donna camminava avanti e in dietro con passo deciso, anche se il continuo mordersi il labbro faceva pensare al contrario. Non ricordava quando la situazione fosse precipitata. Era sempre stata sicura di avere tutto sotto controllo. Di fronte alla realtà emise un sospiro, si fermò e arrestò gli occhi sulle sue scarpe.

 

 

 

 


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Saltellando spensierato si girò con una piroetta levando le braccia al cielo. Salutò con un gridolino che sembrava più il trillo di un usignolo che la voce di un bimbo. Corse verso la nonna, che lo aspettava tendendogli la mano. Guardò la mamma con un sorriso che gli occupava tutta la faccia, e girato l'angolo, scomparve.
- Sei pronta, Agnese ? - una voce femminile, secca, la riportò con i piedi per terra.
- Se non lo fossi ? - rispose quella infastidita
- Aspetterò, io ho una gran pazienza.
- Tanto vale - biascicò Agnese - tanto... se hai deciso di tediarmi.
- Voglio solo sapere perché l' hai fatto.
- Ancora? - rispose tra l'incredulo e lo strafottente la ragazza - Insomma, è possibile,è possibile che non si possa scherzare mai?
Te l'ho già detto, te lo ripeto: scherzavo ! Insomma, vuoi che io creda veramente che mio figlio possa nascere con sei dita, all'ottavo mese poi ?! Uffa, ma che noia. No, la zingara c'era ma era normale, presumo...visto che le mani neanche gliele ho guardate. Perché l'ho fatto, perché l'ho fatto... perché non sapevo di scatenare ‘sto pandemonio, se no stai sicura che non l'avrei fatto. Anzi, quasi quasi adesso me lo chiedo io: ma perché l'ho fatto ?
Agnese si sedette su una panchina, accarezzandosi la pancia, che ormai cominciava a pesare e cominciò a fantasticare sulla sua vita, sulla vita dei suoi figli. Lo faceva spesso, era una sognatrice. Qualcuno pensava che fosse un'artista, perché dipingeva e perché era stramba.
La bionda e austera interlocutrice girò sui tacchi e se ne andò scuotendo la testa. Infondo, non era poi così vero che avesse tutta questa pazienza.
Agnese la guardò allontanarsi, con una punta di invidia - è bella, è alta, e fa sicuramente girare la testa agli uomini.
Sorrise con aria furba tra sé - devo scoprire che profumo usa.

 


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- Me lo compra un gelato, Signora? Dai, me lo compra ?
La Signora si allontanò in fretta - Ma tu guarda che roba. Dovrebbero rinchiuderla certa gente. Chissà cosa può fare uno così - La Signora camminava e pensava in fretta. Non sapeva dire cosa l'avesse spaventata di più, se quel ghigno sulla faccia o gli occhi lacrimosi e persi. Certo il contrasto era inquietante e orrendo. L'aspetto no, però. Era curato, rasato di fresco, e fresco di dopobarba. Le scarpe erano lucide ed era anche ben vestito.
- Me lo compra un gelato ? Mia moglie non me lo compra. Non vuole che mangio il gelato. - Cominciò a ridere, a ridere male, come un ringhio di cane - hahaha hahaha - tirando in fuori le labbra, mettendo in mostra le gengive - e io me lo mangio, adesso lo mangio.
La gente si spostava, cercava di evitarlo, non era certo invitante la sua performance.
Ad un certo punto gli si avvicinò un ragazzo, uno di quelli che ai miei tempi le nonne definivano hippy e gli chiese con tono cortese se avesse da accendere.
Il vecchio lo guardò stupito e con aria solenne rispose - non ho le sigarette. La Marta non vuole. La Marta non vuole che mangio il gelato e neanche che fumo una sigaretta. Mi dai una sigaretta ?
Il ragazzo gliela diede, si procurò dei cerini e cominciarono a discorrere del più e del meno. Con pazienza lo portò a parlargli di sé, si offerse di portarlo a casa e fu così che riuscì a sapere che si era allontanato da un Istituto di igiene mentale, una costosa Casa di cura, non distante da dove si trovavano.
Prima di salutarlo, il ragazzo gli comprò un cono con tre gusti.

 

 

 


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Nell' Istituto si sparse la voce subito. I dottori sorridevano sollevati, gli infermieri sorridevano felici, gli ospiti sorridevano per i fatti loro, altri erano amorfi come sempre. James parlava a tutti senza neanche prendere il respiro, il dr. Anelli parlava da solo, Agnese non parlava, non le interessava un gran che quello che le accadeva intorno.
La bella Signora tamburellava nervosamente con le dita della mano destra sul bancone del ricevimento. Qualcuno la guardò male, smise e cominciò a battere con la punta del piede sul pavimento.
Entrarono tenendolo dolcemente a braccetto: un angelo a destra, un angelo a sinistra. Gli sussurravano a turno " eccoci arrivati - tranquillo - ecco, vedi che tutti ti aspettano - sei stato proprio un brigante, ci hai fatto spaventare, sai ? - ci sei mancato tanto ". Lei gli andò incontro con un mezzo sorriso, incerta sul comportamento da tenere. Lo abbracciò e disse soltanto - Papà, ti porto a casa. Ho già preparato le tue cose.
Lui la guardò, con lo sguardo annebbiato. I suoi movimenti erano lenti e imprecisi, ma la fissava con impegno, la scrutò e con aria solenne le disse - Lo sa ? Lei mi ricorda la mia figlia.

 

 

 

 

 

Lo sventurato cammino di un ipofisi


Ennesima mesata sprecata. Un ulteriore ciclo fottuto. Non serve a niente darsi tanto da fare con questa stronza. Lei e i suoi coiti interrotti, i suoi preservativi, il billings. Io sono l'elite, la casta, la parte migliore. Svolgo il mio lavoro in modo preciso, meticoloso, puntuale; sempre, da anni. La seguo dalla pubertà. Mi preoccupo affinché non abbia a preoccuparsi. La faccio funzionare come un orologio. Non ho mai sbagliato. Mai un ritardo. Mai una dimenticanza. Io. Il mio mestiere è inviare messaggi. Per questo ho sotto di me un esercito di gonadotropine. Durante la prima fase ordino ad una delle ovaie di far maturare un follicolo, nel contempo l'ovaio tappezza l'utero con una speciale carta da parati che si chiama endometrio. L'ovulo attende nel follicolo che a metà ciclo io ordini ai miei squadroni di liberarlo. Nella seconda fase ritappeziamo trattando le pareti con progesterone e attendiamo giubilanti di accogliere un ovulo fecondato. Ma la stonza li fa degenerare tutti. E tutti finiscono in flusso, in scolo, in fiume di sangue che non è solo endometrio espulso, ma è dolore, lacrime, cruccio: é il mio avvilimento. L'ultima cattiveria che mi ha fatto è stato mettermi in prepensionamento. Non richiesto, ovvio. Ero così felice, per la prima volta un regalo per me. Un braccialetto. Di quelli che vanno tanto di moda adesso. Se lo è infilato, là nel mio campo di battaglia. Su, al centro del palco del mio teatro. Ho fatto in tempo a rallegramene, prima di sentirmi chiuso in una morsa oppressiva, soffocato, inibito. Il mio lavoro è stato sospeso, caro Eduardo. Eduardo. Così lo avrei chiamato. O Maria.

 

Tre giorni con papà

 


16 luglio 2006 Lamaforca

h. 9.24 arriva la telefonata

 

17 luglio 2006 Vizzolo Predabissi

h. 15.00
In fondo all' edificio ci sono due grandi porte; su quella a destra c'è un cartello: ingresso riservato SOLO AI DISABILI. Chissà se una volta avrei vissuto quell'entrata come una premura o una disgrazia ? L' altra è la camera mortuaria. Varco la soglia. E' lì che mi aspetti.
Biancaneve dai personaggi capovolti. Tutti e sette i nani abbarbicati in me. Primo Cucciolo, secondo Brontolo, poi Eolo - gli cola il naso -, Mammolo, Dotto, Pisolo, ultimo Gongolo.
Gongolo insiste di nasconderti le briochine kinder sotto il raso avorio ! Cerco di tenerlo buono. Tu, Biancaneve, composto nella bara dal coperchio di cristallo. Rumore di freezer compreso. Tempi moderni. Più che una principessa sembri un faraone. Viso bello e importante, zigomi ben disegnati, fronte alta, naso aquilino, orecchie faraoniche (non esiste altra definizione).
Non arriverà nessun principe azzurro a darti un bacio capace di regalarti un risveglio terreno.
Elegante nel vestito blu - rievocante il matrimonio della Nena - camicia cielo di Puglia, cravatta in tinta con piccole gocce blu azzurre bianche. Ricordano stelle di rugiada su foglie a mano aperta. Gocce con i piedini che accolgono vivaci embrioni. In mano hai una corona, filza di grani tra le dita. Non si vede, ma lo so. Sul ventre un viso di Madonna. Ventre che dà la vita. Ventre che la toglie. Ti tocco il viso. Voglio accarezzarti. Si spegne il desiderio forte di darti un bacio, si accende una visione: Alaska. Orsi bianchi. Foche. Immensità candida. Tanta luce. Ti giro intorno e cambi espressione. Da sinistra sei un po' più felice e rilassato che da destra. Da destra sei rassegnato, come se raggiungere il sonno fosse stato faticoso.
Entra un signore anziano, penso sia un tuo amico anche se non l' ho mai visto. Mi guarda. Ti guarda. Mi guarda e dice: "come se ciama cheschì ?" Gli dico il tuo nome. Mi guarda un po' infastidito, dice : " Ghe n'è minga n' alter ?" Rispondo: "Io ho solo questo"; mi alzo di scatto e sono sicura : stai ridendo, la tua scuola funziona, hai il ghigno di quando ci prendevi in giro! Il poveretto, l'altro, ci lascia perplesso e va in cerca del suo caro estinto.
Sulla locandina ( come si chiama quel foglietto che sta qua fuori con scritto che annunciamo la tua morte: Avviso ? Menù? Ordine del giorno? Scaletta ?) si legge: è mancato all' affetto dei suoi cari ... . No, c'è un errore, l' affetto dei suoi cari è ancora qui !

 

18 luglio 2006 Vizzolo Predabissi

Buongiorno, sono arrivata. Eccomi. Stamattina mi è caduto l' occhio sul termometro, sei a - 30°. Tanto eri bello ieri, tutto compito e uniforme nel tuo incarnato crema, tanto oggi appari in scale cromatiche improbabili. La fronte resta di un avorio credibile, ma dalle sopracciglia in giù fino a un centimetro dal colletto della camicia sei maculato giallo arancio. Sotto gli occhi, dritto sugli zigomi, il colore è addirittura fosforescente. I bulbi oculari si sono infossati in due perfetti ovali violacei.
Oggi sembri decisamente più morto di ieri. Ieri sera ti ho lasciato qui solo e stamani c'era qualcuno vicino a te. Stavano sigillando e la macchina era fuori che aspettava. In pochi minuti la sala era di nuovo tutta per noi. Avevano fretta. Noi no. Ho mal di testa ma nessuno ha un' aspirina. Forse non usa più, devo essere rimasta indietro.
Io ne ho un flacone da 100 ma l' ho lasciata a casa. Intendo a 1000 km da qui.
Nel frattempo l' incarnato si è uniformato di nuovo. Momi ti ha portato gli occhiali. Stai molto meglio. Davvero. Sei di nuovo tu.
Sono uscita un attimo e torno scoprendo che ora hai un vicino. Purtroppo, si può dire ? E' un ragazzo di 30 anni. Incidente. Morto sul colpo. Titoloni sul giornale! I parenti sono increduli, disperati, attoniti. Sguardi muti. Anche noi restiamo privi di suoni. E di pensieri. E' un' attesa strana: la fermata dell' autobus, la sosta all' autogrill, l'intervallo tra il primo e il secondo tempo di un film.

 

19 luglio 2006 Vizzolo Predabissi

Buondì. Oggi è giorno di commiato. Non manca molto, anzi poco, pochissimo. In realtà qui c'è una gran pace, eppure non riesco a stare ferma. Dico delle preghiere per te, ma non ricordo tutte le parole. A filastrocca il senso si perde. Le adeguo un po', come mi paiono più coerenti.
E' arrivato un cuscino di fiori. E' bello, tutto colorato. Ci sono gigli, gerbere gialle e arancioni, rose rosse, bianche e rosa, rododendri bianchi, ortensie e dei fiori bianchi a ciuffi tipo campanelle al contrario. Non ti fidare della mia descrizione, perché in fatto di fiori non sono ferrata. C'è del verde e del velo da sposa. E' fresco e allegro. Estivo giusto per questo 19 luglio.
Cerchiamo di renderti lieto il viaggio: sigari - dall' Anna - sigarette, foto, brioches, profumo, poesie. Poi arrivano loro. Seri, professionali, ben vestiti ma non di tutto punto, solo pantaloni neri e camicia azzurra. Fuori più di 30 gradi. Dentro ventisette viti. Ventisette volte gracchia il motorino dell' avvitatore. Ventisette coltellate al cuore. Ventisette volte la stessa esclamazione sorda, dentro. Ognuno la sua. Perché ? Ma cazzo ! Por Franchein ...
Cri ed io saliamo sul carro con te. Fa uno strano effetto. Guardiamo le macchine che ci passano affianco. Pensiamo a quante corna ci stanno facendo di nascosto. Qualche segno della croce anche, di sicuro. Sorridiamo di una e dell'altra cosa. Non è un ghigno lieto, direi più di imbarazzo. Parliamo d'altro per dissimulare il disagio. In chiesa la funzione riesce a penetrarci con grazia. Come una lunga carezza. C'è un sacco di gente, tanti amici, a monito nostro su come bisogna comportarsi nel corso di una vita intera per essere amati e compianti davvero. Poi la passeggiata fino al camposanto, fino alla terra, ventre di ritorno che ti accoglie e ti avvolge. Che ti stacca da noi e ti restituisce alla vita. Solo ora ricordo le parole che lessi dal poeta e che già una volta seppero rasserenarmi: ora Franco è nato al cielo.

 

 

 

 

Ciao, Stefania !


Ciao Stefania. Mi guardo allo specchio e mi ripeto "ciao Stefania". E' strano per me. Nato Stefano, oggi Stefania. Sono stata ricreata, plasmata a mia immagine e somiglianza. E' stato un viaggio lungo, per nulla comodo o facile. Contrastato. Quanti non volevano! Non ho viaggiato in prima classe, mai, fino ad ora. Forse chi mi generato, è stata anche chi ha capito meglio la situazione, chi ha saputo vedere oltre, ben prima che potessi rendermene conto io. Cara madre e padre e sorella, come potevi sapere quale mostro portavi in grembo? E invece no, così giovane, così sola, giusto una lacrima ha scalfito il suo cuore, quando ha deciso di farsi ostrica, per mettere al mondo la sua perla. Bella fregatura che si è presa. Stefania. Dovrò andare all'anagrafe a cambiare il nome. E il sesso. Sorrido. Non voglio essere un moderno eunuco. Sono donna. Credo di essere donna. Sono più donna di prima. Non potrò mai generare. Ma non vedrò più quel verme schifoso strisciarmi sul monte. E non finirò più in ospedale perché me lo attacco indietro con la colla per far finta di non averlo. - Guardami. Ho glutei tondi e torniti, tette piccole ma alte e sode. Non ho passato. Mi chiamo Stefania, sono una donna e ho tutta la vita davanti. - Mi parlo allo specchio, vorrei che fosse così. Mi guardo allo specchio e mi vedo; sono ancora io: vestaglia di raso rosa, boa spumeggiante, ciabattine in tinta con pelo aereo, sguardo smarrito sulla parte amputata. Sono ancora io. Stefano o Stefania, a seconda delle scarpe che indosso.

" Steffa, sei pronta ? " - Giorgio cercava di attirare su di sé l'attenzione.
" Amore, eccomi. La tua colombella è pronta per varcare la soglia di casa, like a vergin."
" Dai andiamo, che a casa c'è Fuffino che ti aspetta." - disse Giorgio ridendo, guardandola fluttuare per la candida, sterile, immacolata stanza della clinica.
" Sono pronta cow-boy, andiamo". E a braccetto si incamminarono verso l'uscita. La chirurgia era al primo piano, evitarono di prendere l'affollato ascensore e scesero le scale. Davanti al bancone delle informazioni, al pian terreno Stefania squittì : " Oddio, oh-ddio, oh-ddio, il mio beauty case di Gucci, l' ho lasciato in bagno ..." e, tirando in fuori le labbra aggiunse in un falso sussurro " Gioggi, l'avevo tenuto fuori per mettere un po' di rosso quando arrivavi tu. - Aspettami in macchina, volo". " Si, con quei tacchi sta attenta a non volare davvero, che poi ti portano in ortopedia". Stefania svolazzava su tacchi alti 12 cm. salutando a destra e a manca chiunque incontrasse. Baci a medici, infermiere, parenti di degenti, chiunque era investito dal suo distribuire leggiadre effusioni. Entrò decisa in camera , imbarazzata nel trovarsi una ragazzina davanti, intenta a mettere in ordine la propria biancheria. "Scusa, scusi ... ho lasciato una cosa in bagno". La ragazza la guardò e disse " Ah, pensavo di aver guadagnato una trousse completa, visto che dovrebbe essere la mia giornata fortunata ". Stefania si fermò e la guardò meglio " Scusa ?" . La ragazza continuò " Già, c'eri tu prima qui ? allora dovresti saperlo cosa ci sono venuta a fare ..." e sorrise. " Si ma, ma ... mi sembri un po' giovane. Va bene, piacere Stefania" - " Stella" - " Oh, grazie!" sbatacchiò gli occhioni Stefania. " Mi chiamo Stella." - ribadì l'altra. "Ah, si ,già, e come ti senti ?" . Stella rispose " Emozionata. Felice. Finisco un percorso iniziato il giorno che sono nata ... i miei mi sono stati molto vicini, cioè più che altro mia madre". " Sono ammirata - disse Stefania - sei così sicura di te " e i suoi occhi indugiarono per alcuni secondi sulla camicia da notte di flanella e sugli zoccoli del Dr. School's che Stella indossava con agio. Stella se ne accorse e chiese indicando i sabot " e quei trampoli sono comodi ? " - " Beh, no, non è che siano il massimo del confort, però aiutano ... ho l'impressione che mi aiutino a mostrare al mondo la mia vera connotazione ". Stella la guardò con affetto " Ma quella è dentro di te, sei tu. La parte dura l'hai già passata. Rilassati, vedrai, da ora in poi sarà tutto più facile ". In quel momento entrò un' infermiera e disse a Stella di seguirla. Le ragazze si salutarono. Una luce complice comparve nei loro occhi. Stefania afferrò il beauty case, si tolse le scarpe e leggera corse da Giorgio.

" Eccomi" disse saltando in macchina. "Ma dove diavolo sei stata? E' un' ora che ti aspetto qui. Mi hai preso per il tuo autista? Perché Steffa, è ora di darsi una regolata se vogliamo andare d'accordo." Giorgio disse tutto d'un fiato, secco, come se fosse eruttato un vulcano tenuto a bada per troppo tempo. " Dove sei sparita? Chi dovevi vedere ? Non hai niente da dirmi ?" Lei lo guardò con lo sguardo luminoso e sereno. " Eccome se ho da dirti" disse lei giuliva. "Volevo vedere chi prendeva il mio posto. Volevo capire se dobbiamo essere per forza diverse, se dobbiamo rappresentare degli stereotipi e l'ho vista, le ho parlato: la più splendida delle creature, sembrava Biancaneve, anzi no, La Principessa sul pisello ... e non ridere cretino, non in quel senso ... era proprio una ragazza gentile, simpatica, decisa e sensibile. Dovevi vederla: niente trucco, nessun extention ... calzava pantofole sanitarie." Giorgio la guardò con occhi e bocca spalancati " Ma dai! In ospedale ? Steffa, sei comica!" e scoppiò in una fragorosa risata. Stefania stette seria e raccolta, composta nel suo sedile, un po' accigliata, ma solo perché stava pensando intensamente. " Non mi chiamare più Steffa." - " Eh ? E perché Steffa ? " - " Mi chiamo Stefania. E non voglio più fare il pagliaccio. Prendimi sul serio. Lo so, ho fatto di tutto e di più ma adesso dico basta." " Ma Steffa ..." - "Stefania!"- " Tranquilla, va bene Ste-fa-nia. Non so cosa sia successo di sopra, ma adesso torna in te. Torna quella che mi è sempre piaciuta: un po' bambina, un po' perversa" e aggiunse sorrisino e occhietto ammiccante. Stefania aprì lo sportello dell'auto, mise un piede fuori, le scarpe ancora in mano, poi saltò giù decisa."Sai cos'è successo ? Che ho visto chi sono, che ho visto che posso essere come mi sento. Grazie Giorgio, ho da fare. Ci si vede." - " Ma dove vai? " - " A comprare un paio di scarpe comode ".